É meu grato
dever dar conta - em jeito de mais uma homenagem, que não será certamente a
derradeira - de como decorreram as exéquias do nosso mui saudoso Prof. Silvio
Panciera, agradecendo a Ivan di Stefano a partilha que connosco teve a
gentileza de fazer. - J. d’E. De:
vaniadst@tiscali.it [mailto:vaniadst@tiscali.it] Caro José, nella
basilica di S. Pancrazio, la mattina del 18 agosto, per l'ultimo saluto a
Silvio Panciera ci siamo ritrovati in molti, ciascuno coi propri ricordi. I
miei più antichi li ho scritti qui di seguito e te li invio con un abbraccio. Ivan Di
Stefano Manzella È
opinione corrente che le pietre non abbiano anima e per indicare una persona
crudele si dice che possiede un cuore di pietra, ma noi sappiamo che
l’anima della pietra è la figura prigioniera che vi si cela: lo scultore
l’aiuta a nascere per donarci emozioni che ci sopravviveranno. La pietra
nasconde anche tutto quello che umanamente possiamo esprimere con la parola
scritta e che, volta per volta, nei secoli qualcuno ha lasciato affiorare alla
sua superficie, mettendo in fila i caratteri di un alfabeto. Dentro questi due
aspetti stanno l’Arte e la Storia, che si offrono allo sguardo e alla
riflessione, purché si abbia la pazienza di sostare un attimo per dialogare con
le forme e con le parole. Siste
viator, dice
l’invito che mai non invecchia, e molti sostarono per qualche tempo nei
luoghi più diversi, come, ad esempio, l’aula VI della Facoltà di Lettere
a La Sapienza, dove
circolavano le prime maleodoranti fotocopie che riproducevano orribili pietre,
le quali però nel giro di un’ora divenivano straordinariamente loquaci e
proprio per questo incredibilmente belle. A renderle tali provvedeva un giovane
professore alto, serio e riservato come sa esserlo un veneto che lavora con
un’intensità e una passione inedite nel panorama universitario degli anni
sessanta del XX secolo, un panorama ricco di fermenti sociali, abitato da
studenti non sempre muti o insensibili davanti allo spettacolo
dell’insegnamento talvolta praticato come esibizione di sè. Quel
giovane professore fuori norma, spacciava cibo per individui curiosi, mostrando
che con quelle pietre non si poteva barare: niente discorsi fumosi, teorie alla
moda, civetterie accademiche, rimasticature di recensioni altrui, niente
trucchi, manierismi, divagazioni strampalate, compiacimenti letterari,
sbrodolature soporifere; niente ‘copia e incolla’, per usare una
formula recente. L’aria fritta e la seriosità cattedratica erano bandite.
Ci diceva che occorrevano solo un’infinita pazienza e il giusto metodo.
La pazienza come carburante, il metodo come veicolo, la passione come motore
(il suo era sempre acceso). Con
quelle pietre si viaggiava nei luoghi più lontani e celebri, si entrava in casa
altrui, per cercare l’ante
e il post, il dove, il
quando, il chi, il cosa, ma soprattutto - con immensa fatica - il perché delle
cose materiali o immateriali, di un’anfora come di un’idea, sedotti
dal loro profilo, dal loro contenuto, dalla loro ambiguità, ma specialmente dal
fascino dell’immaginazione, madre di tutte le scoperte. La
pazienza, il metodo e la passione, governati da una testa pensante, ci
portavano piano piano a catalogare tutte le facce della verità storica, a
capire su che cosa camminiamo noi di Roma, fortunatissimi tra i mortali
privilegiati. Lui, da veneto, Roma se l’era conquistata dopo esserne
stato a sua volta sedotto. Quel che
si rischiava con l’epigrafia stava dentro una serie di vocaboli:
provocazione, sorpresa, premio, frustrazione, inganno, beffa, sfida, dubbio.
Provocazione: un titulus
che non capisci è una provocazione - diceva - e alla fine devi decidere se sei
tu troppo ignorante o lui troppo beffardo; quasi sempre scoprivi che eri tu a
saperne poco e questa convinzione si è ingigantita a tal punto che verrebbe
voglia di smettere. A temperare la frustrazione interviene talvolta il premio
di qualche scoperta, che si aggiunge al sapere collettivo come una voce
intonata si aggiunge al coro generale. Sorpresa: una parola nuova ti sorprende
- diceva ancora - quando t’accorgi d’essere il primo a ridarle
suono e senso, cioè vita; ma spesso, mentre ritieni d’aver fatto una
scoperta inedita e attendi il premio della gloria, ti accorgi che sei caduto in
una trappola. In quei casi la frustrazione è micidiale, ma va messa in conto
perché fa parte del gioco. Nonostante
questi alti e bassi, un fatto è certo, caro Professor Panciera, Lei ha messo in
moto una bella macchina che ora cammina da sola e camminerà sino a quando ci
saranno persone curiose, ricerca di memoria e capacità di metodico
ragionamento. Per
questa macchina - di cui siamo in vario modo parte attiva e fruitori grati - ci
ritroviamo spesso assieme, ciascuno con la propria storia, con alle spalle una
misura più o meno ampia di tempo vissuto in comune, di cose fatte, sognate,
desiderate. Non ci ha spinto e unito solo il precetto di un credo laico o religioso,
ma anche il senso di appartenenza a un populus
di cives Romani pleno iure,
magari polemico al proprio interno, ma caparbiamente attaccato a queste pietre,
capace, se occorre, di vivere d’aria e di pioggia, come certi caprifichi
adagiati sui travertini, come i capperi che pendono dalle cortine laterizie
delle Mura Aureliane, e che al momento giusto sanno fiorire splendidamente. Se le
pietre hanno un’anima, perché non dovremmo averla pure noi?
Un’anima di fede e di carbonio che qualche divino scultore saprà svelare
e liberare. Così sarà facile dare un senso a ciò che facciamo e accettare
cristianamente il distacco che stiamo vivendo, ora come realtà, domani come
ricordo. Grazie,
professore. Vivas in Deo!
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