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[Archport] Per Silvio Panciera

To :   "archport" <archport@ci.uc.pt>, "porras" <pporras@der.ucm.es>
Subject :   [Archport] Per Silvio Panciera
From :   José d'Encarnação <jde@fl.uc.pt>
Date :   Sun, 21 Aug 2016 22:47:43 +0100

É meu grato dever dar conta - em jeito de mais uma homenagem, que não será certamente a derradeira - de como decorreram as exéquias do nosso mui saudoso Prof. Silvio Panciera, agradecendo a Ivan di Stefano a partilha que connosco teve a gentileza de fazer.  - J. d’E.


De: vaniadst@tiscali.it [mailto:vaniadst@tiscali.it]
Enviada em: domingo, 21 de Agosto de 2016 19:38
Para: jde@fl.uc.pt
Assunto: per Silvio Panciera

 

Caro José, nella basilica di S. Pancrazio, la mattina del 18 agosto, per l'ultimo saluto a Silvio Panciera ci siamo ritrovati in molti, ciascuno coi propri ricordi. I miei più antichi li ho scritti qui di seguito e te li invio con un abbraccio.

Ivan Di Stefano Manzella

È opinione corrente che le pietre non abbiano anima e per indicare una persona crudele si dice che possiede un cuore di pietra, ma noi sappiamo che l’anima della pietra è la figura prigioniera che vi si cela: lo scultore l’aiuta a nascere per donarci emozioni che ci sopravviveranno. La pietra nasconde anche tutto quello che umanamente possiamo esprimere con la parola scritta e che, volta per volta, nei secoli qualcuno ha lasciato affiorare alla sua superficie, mettendo in fila i caratteri di un alfabeto. Dentro questi due aspetti stanno l’Arte e la Storia, che si offrono allo sguardo e alla riflessione, purché si abbia la pazienza di sostare un attimo per dialogare con le forme e con le parole.

Siste viator, dice l’invito che mai non invecchia, e molti sostarono per qualche tempo nei luoghi più diversi, come, ad esempio, l’aula VI della Facoltà di Lettere a La Sapienza, dove circolavano le prime maleodoranti fotocopie che riproducevano orribili pietre, le quali però nel giro di un’ora divenivano straordinariamente loquaci e proprio per questo incredibilmente belle. A renderle tali provvedeva un giovane professore alto, serio e riservato come sa esserlo un veneto che lavora con un’intensità e una passione inedite nel panorama universitario degli anni sessanta del XX secolo, un panorama ricco di fermenti sociali, abitato da studenti non sempre muti o insensibili davanti allo spettacolo dell’insegnamento talvolta praticato come esibizione di sè.

Quel giovane professore fuori norma, spacciava cibo per individui curiosi, mostrando che con quelle pietre non si poteva barare: niente discorsi fumosi, teorie alla moda, civetterie accademiche, rimasticature di recensioni altrui, niente trucchi, manierismi, divagazioni strampalate, compiacimenti letterari, sbrodolature soporifere; niente ‘copia e incolla’, per usare una formula recente. L’aria fritta e la seriosità cattedratica erano bandite. Ci diceva che occorrevano solo un’infinita pazienza e il giusto metodo. La pazienza come carburante, il metodo come veicolo, la passione come motore (il suo era sempre acceso).

Con quelle pietre si viaggiava nei luoghi più lontani e celebri, si entrava in casa altrui, per cercare l’ante e il post, il dove, il quando, il chi, il cosa, ma soprattutto - con immensa fatica - il perché delle cose materiali o immateriali, di un’anfora come di un’idea, sedotti dal loro profilo, dal loro contenuto, dalla loro ambiguità, ma specialmente dal fascino dell’immaginazione, madre di tutte le scoperte.

La pazienza, il metodo e la passione, governati da una testa pensante, ci portavano piano piano a catalogare tutte le facce della verità storica, a capire su che cosa camminiamo noi di Roma, fortunatissimi tra i mortali privilegiati. Lui, da veneto, Roma se l’era conquistata dopo esserne stato a sua volta sedotto.

Quel che si rischiava con l’epigrafia stava dentro una serie di vocaboli: provocazione, sorpresa, premio, frustrazione, inganno, beffa, sfida, dubbio. Provocazione: un titulus che non capisci è una provocazione - diceva - e alla fine devi decidere se sei tu troppo ignorante o lui troppo beffardo; quasi sempre scoprivi che eri tu a saperne poco e questa convinzione si è ingigantita a tal punto che verrebbe voglia di smettere. A temperare la frustrazione interviene talvolta il premio di qualche scoperta, che si aggiunge al sapere collettivo come una voce intonata si aggiunge al coro generale. Sorpresa: una parola nuova ti sorprende - diceva ancora - quando t’accorgi d’essere il primo a ridarle suono e senso, cioè vita; ma spesso, mentre ritieni d’aver fatto una scoperta inedita e attendi il premio della gloria, ti accorgi che sei caduto in una trappola. In quei casi la frustrazione è micidiale, ma va messa in conto perché fa parte del gioco.

Nonostante questi alti e bassi, un fatto è certo, caro Professor Panciera, Lei ha messo in moto una bella macchina che ora cammina da sola e camminerà sino a quando ci saranno persone curiose, ricerca di memoria e capacità di metodico ragionamento.

Per questa macchina - di cui siamo in vario modo parte attiva e fruitori grati - ci ritroviamo spesso assieme, ciascuno con la propria storia, con alle spalle una misura più o meno ampia di tempo vissuto in comune, di cose fatte, sognate, desiderate. Non ci ha spinto e unito solo il precetto di un credo laico o religioso, ma anche il senso di appartenenza a un populus di cives Romani pleno iure, magari polemico al proprio interno, ma caparbiamente attaccato a queste pietre, capace, se occorre, di vivere d’aria e di pioggia, come certi caprifichi adagiati sui travertini, come i capperi che pendono dalle cortine laterizie delle Mura Aureliane, e che al momento giusto sanno fiorire splendidamente.

Se le pietre hanno un’anima, perché non dovremmo averla pure noi? Un’anima di fede e di carbonio che qualche divino scultore saprà svelare e liberare. Così sarà facile dare un senso a ciò che facciamo e accettare cristianamente il distacco che stiamo vivendo, ora come realtà, domani come ricordo. Grazie, professore. Vivas in Deo!


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